Mariangela, il guardiano dell’antico torchio del vino

Mariangela è una donna ossolana che ha scelto di non abbandonare il suo piccolo antico borgo di montagna in cui è cresciuta. 

È cresciuta a Pianezza, un borgo della Val d’Ossola, dove appena diventata ragazza ha imparato il mestiere che lì tutti facevano: il vino. È qui che ha scelto di tornare anche dopo il matrimonio. «Da qui esco solo per andare al cimitero o alla casa di riposo», dice sorridendo, lasciando intendere che per lei questo luogo è molto più che un paese: è casa, è radice, è destino.

La storia che vi raccontiamo non è solo una storia di montagna: è la storia di vigne aggrappate ai pendii, di un torchio del Settecento che ha dato vino a tante generazioni, e di una donna che ancora oggi racconta tutto ciò ai visitatori che la vengono a trovare.

Ci troviamo a Pianezza, in val d’Ossola

Arrivare a Pianezza significa camminare tra vicoli stretti in pietra, case antiche addossate l’una all’altra e tetti grigi di piode. È un borgo che porta addosso il peso della fatica contadina, quando la montagna non era rifugio ma sostentamento.

Un tempo i vigneti circondavano le case, strappati con pazienza al pendio della montagna. Ogni famiglia possedeva piccoli appezzamenti sostenuti da muretti a secco, e da quei campi ricavava il vino che serviva a riempire le tavole.

In questo contesto è cresciuta Mariangela. Ha respirato la montagna fin da bambina, ha visto le stagioni scandire il lavoro dei campi e ha imparato presto che qui nulla si ottiene senza fatica. Eppure, quando ha potuto scegliere, non è fuggita. Ha deciso di restare. Perché Pianezza, con le sue pietre e i suoi silenzi, è il luogo dove si sente completa.

Come si faceva il vino

Il cuore di questa storia è il vino. Mariangela lo dice con semplicità, come se fosse un segreto custodito da sempre. A Pianezza, racconta, non c’era famiglia che non avesse un piccolo pezzo di vigna, curato con pazienza sui terrazzamenti assolati. Lì tutto iniziava, molto prima dell’autunno.

In primavera si potava la vite: gli uomini tagliavano i tralci secchi, le donne raccoglievano le fascine. A maggio e giugno bisognava legare i tralci nuovi, alzare le viti, difenderle dal vento. Poi veniva l’estate, con la sua attesa silenziosa: si passava tra i filari a zappare la terra, a togliere le erbacce, a controllare che i grappoli crescessero bene. Non c’erano macchine, solo mani e zappe, e il tempo che scandiva i gesti.

La vendemmia arrivava quando l’uva era pronta, di solito a settembre. Era un rito collettivo: parenti, vicini, amici, tutti partecipavano. I grappoli venivano tagliati con forbici e coltellini, raccolti nei cesti e poi caricati a spalla, giù per i sentieri ripidi fino al paese. Le spalle si piegavano sotto il peso, ma nessuno si lamentava: era festa, era lavoro che univa.

Il cuore della comunità era l’antico torchio. All’ingresso del locale, ancora oggi, è inciso un anno: 1744. Da secoli generazioni di uomini e donne vi hanno portato l’uva, e lì la magia si compiva. Le vinacce venivano disposte dentro le tavole di legno, si formava il quadrato, e poi si calava lentamente la vite. Il braccio pesante scendeva piano, costante, senza sosta, spremendo i grappoli fino all’ultima goccia. A volte il torchio lavorava per un giorno intero, a volte per una notte intera, mentre l’odore dolce e acre del mosto riempiva l’aria.

Il succo colava nelle tinozze, dove fermentava lentamente. Non c’erano strumenti di misura, si andava a occhio e a esperienza: bisognava saper ascoltare il vino, capire quando era il momento di travasarlo, quando lasciarlo riposare. Le botti di legno custodivano il vino per i mesi successivi, al fresco delle cantine scavate nella pietra. Ogni famiglia ne aveva una, piccola o grande, e la trattava come un tesoro.

Dal torchio usciva il “vino Americanino”, semplice e aspro. Non era fatto per stupire, ma per accompagnare. Era il vino che resisteva, che durava per tutto l’anno. Finiva sulla tavola a pranzo e a cena, versato in brocche di terracotta o bottiglioni di vetro. Lo bevevano gli uomini tornati dai campi, le donne dopo il lavoro in casa, persino i ragazzi, allungato con un po’ d’acqua. Non era un lusso: era la bevanda quotidiana, il segno di una dignità conquistata con fatica.

Dietro ogni bicchiere c’era la mano di un’intera comunità. Ogni sorso raccontava la forza dei campi, il sudore della vendemmia, la lentezza del torchio. Mariangela lo ricorda bene: il profumo del mosto, le chiacchiere tra le donne, i canti che a volte rompevano il silenzio della notte.

Oggi quel torchio non lavora più. È lì, immobile, ma non dimenticato. Mariangela lo custodisce con cura: lo tiene pulito, pronto ad accogliere chiunque passi per il borgo. Quando qualcuno si ferma, lei apre la porta e racconta. Non si definisce una guida, ma una testimone. Eppure, nelle sue parole, quel torchio torna a vivere: non è più solo un pezzo di legno e ferro, ma il cuore pulsante di una comunità che sapeva trasformare l’uva in vino e il lavoro in memoria.

Il nostro Calendario 2025

L’incontro con Mariangela è stato molto più di una visita: è stato un viaggio dentro la memoria di Pianezza e della Val d’Ossola. Ci ha mostrato come la comunità trovava nel vino non solo sostentamento, ma anche un senso di unione. Ci ha fatto capire che dietro ogni bicchiere c’era il lavoro di intere famiglie, la pazienza, la condivisione.

Ed è proprio per raccontare voci come la sua che abbiamo creato il calendario 2025. Ogni mese è dedicato a una donna di montagna: volti, storie, gesti quotidiani che parlano di resistenza e di tradizione. Nel calendario vedrete Mariangela in una fotografia. Ma dietro quell’immagine ora sapete che c’è molto di più: ci sono le vigne arrampicate sul pendio, l’antico torchio del 1744, il profumo del mosto e il vino Americanino che accompagnava le giornate.

Con questo calendario non vogliamo solo scandire i giorni. Vogliamo custodire la memoria di donne come Mariangela, che con la loro voce tengono vivi i borghi, i gesti, le radici.

Perché un paese sopravvive davvero finché qualcuno continua a raccontarne la storia. E a Pianezza, grazie a Mariangela, quella storia è ancora viva.

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