K2: altezza, catena montuosa, spedizioni e disastri
Il K2, conosciuto anche come Monte Godwin-Austen, Karakorum 2 o la montagna degli italiani, è la seconda montagna più alta del mondo, con un’altitudine di 8.611 metri, superato solo dall’Everest.
Situato nel Karakorum, una delle catene montuose più maestose e imponenti del pianeta e sub catena situata a nord-ovest della catena dell’Himalaya, il K2 è geograficamente collocato tra il Pakistan e la Cina, al confine tra la regione del Gilgit-Baltistan e la regione autonoma dello Xinjiang. La montagna è famosa non solo per la sua straordinaria altezza, ma anche per le difficoltà tecniche e i rischi estremi che presenta agli alpinisti.
“Nessuna di queste è paragonabile al K2.”
Massimiliano Ossini
Spesso definito come “la montagna più pericolosa del mondo” o come “la montagna degli italiani”, il K2 ha una fama consolidata grazie al suo tasso di mortalità elevato. La sua vetta è stata raggiunta solo da una ristretta cerchia di alpinisti, con circa 350 ascensioni di successo a fronte di numerosi tentativi falliti e tragedie.
La montagna è un vero e proprio enigma alpinistico: con la sua parete ripida e inclinata, i passaggi difficili, la presenza di ghiacci sottili e la roccia instabile, ogni sua ascensione è una sfida che va oltre il semplice superamento di una vetta.
Ma il K2 è anche una montagna leggendaria per le storie che racconta: le spedizioni eroiche, le conquiste, i fallimenti, e, purtroppo, le tragedie che l’hanno segnata. La sua storia è una cronaca di alpinisti che hanno osato spingersi al di là dei propri limiti per conquistare una delle vette più temute e rispettate del mondo.
Questa è la sua storia: quella non solo di un monte da scalare, ma quella di una montagna che riscrive la storia dell’alpinismo, e di quegli alpinisti che ne hanno riscritto le pagine.
K2: la storia del nome
Il K2, la montagna più alta del del Karakorum, deve il suo nome alla catena che lo ospita.
In turcomanno, significa ghiaia, area coperta di detriti (korum) di colore nero (kara).
Il nome K2 deriva dalla nomenclatura che fu assegnata dalla spedizione britannica del 1856, guidata da Thomas Montgomerie, un geografo e ufficiale del British Indian Survey. Durante questa spedizione, Montgomerie etichettò le montagne del Karakorum con una lettera “K”, in riferimento alla catena montuosa, seguita da un numero in ordine di altezza.
Perché allora K2 e non K1?
L’aneddoto dice che per fu un errore ad attribuire il numero 2, anziché il corretto numero 1, identificandolo come la montagna più alta della catena, ma anche come la seconda montagna della serie “K”.
Sebbene la montagna sia stata conosciuta localmente con altri nomi, come “Mount Godwin-Austen”, in onore del geografo britannico Henry Haversham Godwin-Austen che l’aveva esplorata nel XIX secolo, il nome “K2” è rimasto quello universalmente riconosciuto.
“La montagna degli italiani”
Il K2 è anche chiamato “la montagna degli italiani”. Questo soprannome è strettamente legato alla spedizione italiana del 1954, che segnò un momento cruciale nella storia dell’alpinismo.
Per la prima volta, infatti, qualcuno riuscì a raggiungere la vetta del K2. Il successo di questa spedizione rappresentò una delle imprese più importanti nella storia dell’alpinismo, non solo per il fatto che il K2 fosse la seconda montagna più alta del mondo, ma anche per le difficoltà estreme che la scalata comportava. Il termine “la montagna degli italiani” è diventato così un riconoscimento dell’incredibile successo della spedizione e del duraturo impatto che essa ha avuto sulla storia dell’alpinismo, facendo del K2 una vetta particolarmente legata al mondo dell’alpinismo italiano.
Negli anni successivi, poi, altri alpinisti italiani continuarono a essere protagonisti di imprese significative sul K2, contribuendo ulteriormente a consolidare questa reputazione.
Dove si trova il K2?
Il K2 è situato nel Karakorum, una delle catene montuose più imponenti del mondo, che si estende tra il Pakistan e la Cina. È posizionato al confine tra la regione del Gilgit-Baltistan, in Pakistan, e la regione autonoma del Xinjiang, in Cina.
La sua posizione, nella parte più selvaggia e remota del Karakorum, è uno dei motivi per cui la scalata del K2 è estremamente difficile e pericolosa. Il Karakorum ospita altre montagne epiche, tra cui il Broad Peak, il Gasherbrum I e II, e il Baltoro Kangri, che contribuiscono a formare uno dei luoghi più isolati e difficili da raggiungere al mondo.
Karakorum: la catena montuosa del K2
La catena del Karakorum è una delle regioni montuose più imponenti e straordinarie del pianeta. Estendendosi per circa 500 km, il Karakorum è famoso per ospitare alcune delle vette più alte e difficili da scalare del mondo, tra cui il K2.
Le montagne del Karakorum sono formate da un mix di rocce antiche e complessi sistemi di faglie, che rendono queste terre particolarmente instabili, con frequenti frane e terremoti.
Oltre al K2, il Karakorum è casa di altre montagne di altissimo livello, come il Broad Peak, il Gasherbrum I e II, il Sia Kangri, e il Baltoro Kangri. Ogni cima del Karakorum è un’ulteriore prova delle sfide uniche che il massiccio offre agli alpinisti, che devono affrontare non solo la difficoltà tecnica ma anche l’isolamento e le condizioni atmosferiche estremamente avverse.
Le cime del Karakorum
Ecco un elenco delle principali cime del Karakorum, insieme alle loro altitudini:
- K2 (8.611 m) – La seconda montagna più alta della Terra e la vetta più celebre del Karakorum.
- Broad Peak (8.051 m) – La 12ª montagna più alta del mondo, situata a ovest del K2.
- Gasherbrum I (8.080 m) – Conosciuta anche come “Hidden Peak”, è la 11ª montagna più alta della Terra.
- Gasherbrum II (8.035 m) – Situata vicino al Gasherbrum I, è la 13ª montagna più alta del mondo.
- Shishapangma (8.027 m) – La 14ª montagna più alta del mondo, situata più a est rispetto alle altre vette principali del Karakorum.
- Masherbrum (7.821 m) – Situata a est del K2, è una delle vette più imponenti del Karakorum.
- Rakaposhi (7.788 m) – Una delle montagne più maestose del Karakorum, situata a nord del K2.
- Sia Kangri (7.422 m) – Si trova a est del K2, ed è una delle montagne di grande bellezza del Karakorum.
- Baltoro Kangri (7.312 m) – Situata nella zona del Baltoro Glacier, vicino al K2.
- Biafo Kangri (7.285 m) – Un’altra cima significativa della regione.
- Laila Peak (6.096 m) – Conosciuta per la sua forma elegante e la difficoltà di scalata, è una delle montagne iconiche del Karakorum.
- Gasherbrum IV (7.925 m) – Un’altra delle vette appartenenti alla catena del Gasherbrum, situata nei pressi del Gasherbrum I e II.
- K12 (7.100 m) – Un’altra cima di grande valore nel Karakorum, situata nel Baltoro.
Il Ghiacciaio del Baltoro
Il ghiacciaio del Baltoro è una delle principali caratteristiche geografiche che definisce la regione intorno al K2. Si estende per oltre 60 km ed è uno dei ghiacciai più grandi e lunghi al mondo. Il Baltoro è il punto di accesso principale per la salita al K2 e ad altre montagne della zona, ed è noto per le sue impressionanti formazioni di ghiaccio e per la sua difficoltà di attraversamento.
Il Baltoro è alimentato da numerosi ghiacciai di montagna e copre una vasta area di roccia e ghiaccio. Attraversarlo è una sfida in sé, con le sue spaccature di ghiaccio, le crepe profonde e le massicce morene di roccia che caratterizzano il paesaggio.
Dal punto di vista storico e alpinistico, il ghiacciaio ha visto innumerevoli spedizioni partire dal suo campo base, il Campo Base del Baltoro, a circa 4.200 metri. Da qui, gli scalatori si preparano per la lunga e pericolosa ascesa al K2 e ad altre vette della zona. Il ghiacciaio stesso, con la sua superficie ondulata e le condizioni meteorologiche estreme, costituisce un ostacolo significativo per ogni spedizione diretta verso il K2, con il rischio di frane e valanghe sempre presente.
Caratteristiche e difficoltà del K2
Il K2 è un gigante che sfida ogni tentativo di scalata. La sua altitudine, le difficoltà tecniche e le condizioni meteorologiche estremamente rigide, lo rendono uno degli obiettivi più pericolosi per gli alpinisti.
La montagna è famosa per la sua inclinazione costante e la sua parete ripida, che presenta enormi sfide. Le temperature scendono facilmente sotto i -30°C e i venti sono impetuosi. L’alto rischio di valanghe, il pericolo di cadute di roccia e la rarità di ossigeno nell’aria a queste altitudini aggiungono una difficoltà unica alla scalata. Nonostante la sua bellezza mozzafiato, il K2 è una montagna che mette costantemente alla prova i limiti fisici e psicologici degli alpinisti.
In particolare, lo Sperone degli Abruzzi, la via principale di ascensione, è noto per la sua difficoltà tecnica. Lungo il percorso, gli scalatori devono affrontare tratti estremamente ripidi, rocciosi e ghiacciati. La roccia è instabile e cedevole, mentre il ghiaccio è tanto sottile quanto pericoloso. Anche l’altitudine è una minaccia costante, con il mal di montagna che diventa un nemico invisibile che può compromettere ogni tentativo di salita. Ogni errore, ogni distrazione, può costare caro. La montagna, dunque, non perdona e richiede agli scalatori una preparazione fisica e mentale straordinaria.
“Il K2 è molto più ripido dell’Everest. Sull’Everest […] all’inizio non sei in alta quota, hai tempo di mettere le scale, le corde… sul K2 sono 100 passaggi, da 6000 m fino in cima.”
Reinhold Messner
Numeri e statistiche del K2
Al di là delle sfide tecniche e fisiche, le statistiche che riguardano il K2 sono impressionanti.
Con una quota di 8.611 metri, il K2 è la seconda montagna più alta della Terra, dopo l’Everest.
Ma la sua fama è legata soprattutto al suo livello di pericolosità. Il tasso di mortalità al K2 è tra i più alti tra tutte le montagne di oltre 8.000 metri. Circa il 25% degli alpinisti che tentano di scalare la montagna non tornano. Il K2 ha avuto solo circa 350 ascensioni di successo dal 1954, ma il numero di morti durante la sua scalata è tragicamente alto.
Il rapporto tra K2 e l’alpinismo
“L’alpinismo porta con sé dei rischi, ma anche tutta la bellezza che si nasconde nell’avventura dell’affrontare l’impossibile.”
Reinhold Messner
Forse è proprio questo il segreto del K2: la sua natura selvaggia e inaccessibile che lo rende una delle montagne più desiderate al mondo. Non è solo l’altezza a farla bramare, ma la sua implacabile bellezza, la sua promessa di sfida, che solletica il cuore di ogni alpinista.
Ogni anno, migliaia di sguardi si alzano verso di essa, attratti dalla sua imponente figura, dai suoi ghiacciai che sembrano fondersi con il cielo. Eppure, è proprio questo misto di attrazione e pericolo che rende la cima così irresistibile. Perché il K2 non si lascia conquistare facilmente. Ogni metro conquistato è un trionfo, ogni passo compiuto è una sfida contro i propri limiti.
Quelle che seguono sono storie di imprese epiche, di sfide che vanno oltre la semplice ascensione di una montagna.
Nei capitoli che seguono, esploreremo le storie delle spedizioni che hanno segnato la storia del K2, dalle prime, audaci ascensioni alle conquiste più moderne, nonché i percorsi più pericolosi e tecnicamente impegnativi che attraversano la montagna.
Storie di sognatori che, con determinazione e coraggio, continuano a lottare per raggiungere la vetta di una delle montagne più iconiche del pianeta.
Come si scala il K2
“Nel Karakorum il K2 è, per altezza, solo la seconda vetta del mondo, ma tenendo conto di altezza, pericolosità e difficoltà tecniche, è considerato l’ottomila più impegnativo.”
Reinhold Messner
Scalare il K2 è uno degli atti di alpinismo più impegnativi e pericolosi che un alpinista possa affrontare. Conosciuto per la sua difficoltà tecnica, la sua altezza imponente di 8.611 metri e le condizioni climatiche estremamente variabili, il K2 è una montagna che non perdona. La scalata avviene generalmente a tappe, con gli alpinisti che devono adattarsi alle altitudini elevate e alle difficoltà in continua evoluzione.
Le tappe della scalata
La scalata del K2 non è un’impresa che si compie in un singolo giorno, ma avviene a tappe. Ogni tappa corrisponde a un campo base o campo intermedio, da dove gli scalatori si preparano per la successiva fase di ascensione. Ogni campo è situato a un’altitudine strategica che consente agli alpinisti di acclimatarsi progressivamente all’aria sottile. Gli scalatori passano vari giorni in ogni campo per permettere al loro corpo di adattarsi alle condizioni estreme di altitudine.
I campi base sono posizionati lungo il percorso in base alla difficoltà del terreno e alla necessità di riposo e acclimatazione. Una volta raggiunto un campo, gli scalatori possono proseguire gradualmente verso l’alto. L’idea è di salire lentamente, stabilendo un ritmo che consenta all’organismo di adattarsi alla rarità dell’ossigeno e di evitare il rischio di mal di montagna acuto.
I campi del K2
I campi base e intermedi al K2 sono disposti lungo la via dello Sperone degli Abruzzi, la via più tradizionale e utilizzata. La progressione avviene attraverso diversi campi:
- Campo Base (5.150 m): Situato alla base della montagna, questo è il punto di partenza della maggior parte delle spedizioni al K2. Da qui gli scalatori iniziano la loro ascensione, spesso con un lungo periodo di acclimatamento.
- Campo 1 (6.100 m): Questo campo si trova poco sopra il ghiacciaio ed è il primo passo significativo della salita. Da qui inizia la vera scalata su terreno misto di roccia e ghiaccio
- Campo 2 (6.700 m): Raggiungibile dopo aver superato il “Cengia dei Lupi”, un ripido passaggio che comporta difficoltà tecniche. Il secondo campo è essenziale per riposarsi e acclimatarsi prima di proseguire.
- Campo 3 (7.400 m): Situato al di sopra del “Collo delle Creste”, a questa altezza la fatica è già considerevole e il rischio di valanghe e cadute di roccia aumenta. L’altitudine richiede una notevole resistenza fisica.
- Campo 4 (7.900 m): Questo è uno dei campi più impegnativi, situato vicino alla “Piramide Nera”. Una volta raggiunto questo punto, gli scalatori sono molto vicini alla vetta, ma l’aria rarefatta e la pericolosità della montagna richiedono estrema cautela.
- Vetta (8.611 m): Dopo aver superato l’ultimo tratto di cresta e le difficoltà finali, gli scalatori raggiungono la cima del K2. Questo è il punto culminante di una lunga e difficile ascensione.
Le vie di ascensione al K2
Ci sono numerosi percorsi per scalare il K2, ognuno con caratteristiche proprie e difficoltà tecniche. Le vie sono situate principalmente sul versante pakistano, ma anche sul versante cinese ci sono alcune rotte esplorate. Ecco un elenco delle principali vie e creste del K2:
Sul versante pakistano
- Sperone degli Abruzzi (Cresta Sud-est): la via principale e più famosa, seguita dalla prima ascensione nel 1954. Nonostante sia considerata la “via normale”, è estremamente difficile e pericolosa.
- Cresta Ovest: Una via aperta nel 1981, caratterizzata da un terreno particolarmente tecnico e difficile da scalare.
- Parete Ovest: Scalata da un team russo nel 2007, è una delle vie più difficili per la sua alta altitudine e le sfide tecniche uniche.
- Pilastro Sud-Sudovest (Magic Line): Proposta da Messner, è una via molto tecnica che fu scalata nel 1986 da Piasecki, Wroz e Bozik dopo vari tentativi.
- Parete Sud (Via Polacca): Estremamente pericolosa, esposta alle valanghe, fu scalata nel 1986 dai polacchi Kukuczka e Piotrowski, ma nessuno ha più tentato di ripeterla.
- Sperone Sud-Sudest (Via Cesen): Salita per la prima volta da Tomo Česen nel 1986, è una variante della via normale che evita l’ostacolo della Piramide Nera. Considerata una delle vie più sicure.
- Cresta Nord-est: Inaugurata nel 1978 da Rick Ridgeway e il suo team, questa via è meno battuta ma non meno impegnativa.
Sul versante cinese
- Cresta Nord: Scalata per la prima volta nel 1982 da una spedizione giapponese, è un percorso impegnativo che richiede un alto numero di alpinisti per essere completato.
- Parete Nord-ovest: Inaugurata nel 1992, questa via prevede il passaggio per la cresta nord-ovest e rappresenta un’alternativa interessante, ma complessa.
Lo Sperone degli Abruzzi
Lo Sperone degli Abruzzi, una delle vie più celebri e temute per la conquista del K2, è un percorso che affascina alpinisti di tutto il mondo. Ma, prima di essere una via di ascesa, è diventato una parte leggendaria della storia del K2, tanto per la sua difficoltà quanto per la sua origine.
Luigi Amadeo di Savoia, Duca degli Abruzzi
La sua denominazione prende il nome dall’ingegnere e alpinista italiano Luigi Amadeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, che fu il leader della prima grande spedizione italiana al K2 nel 1909. L’ingegnere, che aveva una forte passione per le esplorazioni alpinistiche e una grande determinazione, fu tra i primi a esplorare e mappare la zona, dando il nome al percorso che oggi è uno dei più iconici.
Il termine “sperone” si riferisce alla morfologia della via, che si sviluppa come una lunga cresta rocciosa che si protende verso la vetta del K2, ma che, lungo il suo cammino, presenta un susseguirsi di pareti ripide, ghiacciate e pericolose. Questo percorso era considerato la via più diretta per arrivare alla cima, ma al contempo la più esposta ai rischi.
Nel 1954, durante la spedizione italiana guidata da Ardito Desio, lo Sperone degli Abruzzi venne scelto come la via di attacco per raggiungere la vetta del K2, nonostante fosse noto per la sua estrema pericolosità. Gli alpinisti italiani, tra cui Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, affrontarono questa via con grande determinazione, consapevoli della sua difficoltà e del suo alto rischio. La scelta si rivelò vincente, portando alla storica conquista della vetta, ma anche alla consapevolezza che la via rimaneva una delle più pericolose al mondo.
I suoi tratti più insidiosi, come la “Cresta di Lince”, una delle zone più temute, continuano a essere fonte di leggende tra gli alpinisti. La zona è caratterizzata da fessure ghiacciate, crepacci profondi e rocce che crollano facilmente sotto il peso, rendendo ogni passo una lotta costante contro gli elementi.
Insieme alla penuria di ossigeno e alle temperature estremamente basse, queste condizioni fanno dello Sperone degli Abruzzi una delle ascensioni più difficili e, al contempo, una delle più affascinanti del mondo.
I primi tentativi di conquista del K2
Prima del trionfo italiano del 1954, il K2, una delle montagne più temute e difficili del mondo, ha visto numerosi tentativi di conquista, molti dei quali finiti in tragedia o fallimento. La sua fama di “montagna impossibile” era già consolidata molto prima che la spedizione italiana finalmente riuscisse a raggiungere la vetta, ma ogni tentativo precedente ha contribuito a scrivere la storia dell’alpinismo e a mettere in luce le difficoltà e i pericoli di una delle vette più ardue della Terra.
Nei capitoli che seguono, esploreremo le principali spedizioni che hanno cercato di raggiungere la vetta del K2, ognuna delle quali ha lasciato un segno indelebile nell’epopea dell’alpinismo, come la storica impresa del 1954, la tragedia del 2008, e i trionfi recenti come quelli di Silvio Mondinelli e delle spedizioni invernali. Ogni tentativo racconta non solo la lotta contro la montagna, ma anche la passione e il coraggio di chi ha sfidato l’impossibile.
“Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi.”
Walter Bonatti
1902 – Il primo tentativo
Il primo tentativo di scalata del K2 risale al 1902, ad opera di una spedizione anglo-austriaca guidata da Oscar Eckenstein, un pioniere dell’alpinismo e uno degli alpinisti più esperti del suo tempo. Nonostante le condizioni proibitive e l’esperienza degli scalatori, il gruppo non riuscì nemmeno ad avvicinarsi alla vetta, fermandosi a circa 6.300 metri, a causa della difficoltà estrema del terreno e delle cattive condizioni meteorologiche. Questo primo tentativo stabilì subito la difficoltà della montagna, ma anche la sua irresistibile attrattiva per gli alpinisti. L’approccio al K2 iniziava a delinearsi come un’impresa titanica, che avrebbe sfidato le capacità di tutti coloro che vi si sarebbero avvicinati.
1909 – L’alleanza inglese e la prima pionieristica avventura
Nel 1909, una seconda spedizione, questa volta britannica, tentò di raggiungere la cima del K2. Questa volta, la guida era il famoso alpinista inglese Martin Conway, il quale cercò di utilizzare un percorso più diretto. La spedizione riuscì a raggiungere i 7.500 metri, stabilendo un nuovo record di altitudine per la montagna, ma non fu sufficiente per arrivare alla vetta. Durante questa spedizione, gli alpinisti si trovarono di fronte a condizioni ancora più dure rispetto al 1902, con venti estremi, temperature glaciali e il terreno impossibile che non lasciava alcuna speranza di raggiungere la cima. Tuttavia, questo tentativo aumentò ulteriormente la consapevolezza mondiale della difficoltà di scalare il K2 e ne consolidò la fama di montagna di “ultimo confine”.
1938 – Un tentativo giapponese che finisce in tragedia
Nel 1938, un altro importante tentativo di ascensione fu compiuto da una spedizione giapponese. Nonostante la buona preparazione e l’esperienza del team, la spedizione giapponese si rivelò tragica. L’obiettivo era quello di utilizzare un nuovo percorso, ma la spedizione si scontrò con la difficoltà di un terreno instabile e con l’incapacità di adattarsi alle condizioni ambientali. La spedizione, purtroppo, non riuscì ad arrivare in cima, e due membri del gruppo persero la vita durante il tentativo. La tragica fine di questa spedizione segnò ancora una volta l’impossibilità di raggiungere la vetta del K2, alimentando la convinzione che la montagna fosse destinata a rimanere inaccessibile.
1947 – Un tentativo militare britannico
Nel 1947, una spedizione britannica tentò di scalare il K2, approfittando della crescente esperienza accumulata durante la Seconda Guerra Mondiale. La spedizione si trovò di fronte alle solite difficoltà di alta quota: l’assenza di ossigeno, il freddo pungente, le tempeste improvvise e il pericolo di valanghe. Questa volta, la spedizione raggiunse i 7.800 metri, ma non riuscì a proseguire. Il gruppo si ritirò dopo aver visto la difficoltà dell’impresa. Tuttavia, questo tentativo segnalò un passo in avanti nell’esperienza degli scalatori, nonostante il fallimento di raggiungere la vetta.
La prima conquista del K2
“La vera conquista è l’uomo, non la vetta.”
Walter Bonatti
La spedizione italiana al K2 del 1954 rappresenta una delle vette più alte, sia letteralmente che simbolicamente, nella storia dell’alpinismo.
Non solo per il successo storico di raggiungere la cima della seconda montagna più alta del mondo, fino ad allora considerata inaccessibile, ma anche per il contesto storico in cui si svolse. L’Italia, ancora segnata dalle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale, stava cercando di rialzarsi, e questa impresa alpinistica divenne un simbolo di determinazione, coraggio e orgoglio nazionale. Il successo al K2 rappresentò anche un riscatto per una nazione che aveva bisogno di nuove imprese che rinvigorissero lo spirito collettivo e ridessero speranza alla popolazione.
La spedizione italiana del 1954
La spedizione al K2 del 1954 è stata una spedizione alpinistica italiana patrocinata dal Club Alpino Italiano, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, dall’Istituto Geografico Militare e dallo Stato italiano. Organizzata sotto la direzione di Ardito Desio, geografo e alpinista con una lunga esperienza, la spedizione rappresentò una vera e propria sfida per l’Italia, che sognava di conquistare una montagna che fino a quel momento sembrava impossibile da scalare. La spedizione portò, il 31 luglio 1954, per la prima volta nella storia, al raggiungimento della vetta del K2, la seconda montagna più alta del mondo.
La scelta di Desio fu quella di adottare un approccio diverso rispetto ad altre spedizioni fallite, come quella britannica, che avevano tentato senza successo il percorso da sud. Desio decise di tentare lo Sperone degli Abruzzi, un itinerario che, pur essendo noto, si rivelò cruciale per il successo della missione. Questo percorso, che era stato esplorato in precedenza, ma non ancora affrontato con la determinazione e le risorse necessarie, fu fondamentale per il raggiungimento della cima. Grazie alla lungimiranza di Desio, l’Italia riuscì a entrare nella storia dell’alpinismo con un’impresa che non solo conquistò una vetta leggendaria, ma anche il cuore di milioni di italiani, segnando un capitolo fondamentale nel riscatto nazionale del dopoguerra.
Il gruppo che conquistò per primo il K2
“Per me il rischio è stato un bisogno, una passione. Un bisogno di dialogare con me stesso, oltre che con l’ambiente.”
Walter Bonatti
La spedizione al K2 del 1954 era composta da 30 membri, tra alpinisti, ricercatori, e personale di supporto. Ogni componente svolse un ruolo fondamentale nel successo dell’impresa. In particolare, la spedizione comprendeva 13 alpinisti italiani, 10 portatori d’alta quota hunza, 5 ricercatori e 2 membri pakistani. Tra gli italiani, ci sono stati alcuni dei più noti alpinisti dell’epoca, che contribuirono con la loro esperienza e capacità.
Gli alpinisti della spedizione 1954
- Achille Compagnoni (1914-2009): Guida alpina e maestro di sci, raggiunse la vetta del K2 il 31 luglio 1954, insieme a Lino Lacedelli. Compagnoni era un alpinista esperto, con numerose ascensioni sul Monte Rosa e il Cervino.
- Lino Lacedelli (1925-2009): Anch’egli guida alpina e maestro di sci, parte del gruppo degli “Scoiattoli” di Cortina. Lacedelli aveva una vasta esperienza nelle Dolomiti e nelle Alpi Occidentali. Fu uno dei due alpinisti che raggiunse la cima del K2.
- Walter Bonatti (1930-2011): A soli 24 anni, Bonatti era il più giovane della spedizione, ma già considerato uno dei più forti alpinisti del mondo. Nonostante non fosse parte del team che raggiunse la vetta, il suo contributo fu decisivo: insieme al portatore hunza Amir Mahdi, Bonatti trasportò le bombole di ossigeno per Compagnoni e Lacedelli, affrontando un bivacco forzato a oltre 8100 metri, un’impresa che rimase nella storia.
- Erich Abram (1922-2017): Sebbene meno noto al grande pubblico, Abram aveva una solida carriera alpinistica, con numerose salite nelle Dolomiti.
- Ugo Angelino (1923-2016): Alpinista di esperienza nelle Alpi Occidentali, svolgeva la professione di rappresentante di commercio.
- Mario Fantin (1921-1980): Nonostante il suo curriculum alpinistico meno esteso rispetto agli altri, Fantin si distinse come fotografo e cineoperatore, documentando la spedizione.
- Cirillo Floreanini (1924-2003): Alpinista esperto nelle Alpi Giulie, svolgeva la professione di disegnatore.
- Pino Gallotti (1918-2008): Ingegnere e responsabile del materiale tecnico, Gallotti aveva una grande esperienza nelle Alpi Occidentali e sul Monte Bianco.
- Guido Pagani (1917-1988): Medico e alpinista di discreto livello, Pagani fu il medico della spedizione.
- Gino Soldà (1907-1999): Il più anziano alpinista della spedizione (47 anni), con una notevole esperienza nelle Dolomiti.
- Sergio Viotto (1928-1964): Guida alpina e falegname, aveva esperienza sulle classiche salite del Monte Bianco.
- Mario Puchoz (1918-1954): Guida alpina che purtroppo morì per edema polmonare durante le prime fasi della spedizione.
- Ubaldo Rey (1923-1990): Guida alpina e gestore di un rifugio alpino, con una lunga carriera nelle Alpi Occidentali.
Gli altri componenti della spedizione
Il contributo degli alpinisti hunza: I portatori hunza, tra cui Amir Mahdi, furono essenziali nel trasporto delle attrezzature ad alta quota. Mahdi, insieme a Bonatti, si spostò oltre i 8100 metri, contribuendo a garantire che le bombole di ossigeno arrivassero intatte per i due alpinisti diretti verso la vetta.
I ricercatori e il personale di supporto:
- Ardito Desio: Geologo e capo spedizione, fu l’artefice principale dell’organizzazione e della pianificazione della spedizione.
- Paolo Graziosi, Antonio Marussi, Bruno Zanettin, e Francesco Lombardi: Ognuno con competenze scientifiche specifiche, questi ricercatori contribuirono alla raccolta di dati geologici, geofisici e topografici.
I membri pakistani: Ata Ullah e Badshajan furono inviati dal governo pakistano per monitorare e assistere la spedizione sul campo, specialmente nelle operazioni di mappatura e nel supporto logistico.
I protagonisti principali della spedizione furono Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, due alpinisti che, il 31 luglio del 1954, riuscirono finalmente a raggiungere la vetta. La conquista, tuttavia, non fu priva di polemiche: ci furono discussioni sul merito della realizzazione del successo, in particolare per quanto riguarda la questione dell’utilizzo dell’ossigeno e la misteriosa assenza di una spedizione giapponese che aveva raggiunto la cima precedentemente, ma senza l’involontario supporto di una nuova fonte di ossigeno.
28 luglio mattino, settimo campo, quota 7345.
[…] Assisto alla partenza dei miei compagni che stanno per iniziare l’ultima fase d’attacco al K2. Sono Erich Abram, Achille Compagnoni, Pino Gallotti, Lino Lacedelli, Ubaldo Rey.
Walter Bonatti
Il ruolo del Piemonte nella conquista del K2
La spedizione del 1954 al K2 non fu solo un’impresa alpinistica, ma anche una dimostrazione di capacità organizzativa e collaborazione tra pubblico e privato in un momento storico particolarmente complesso.
Mentre la spedizione si preparava a partire per il Pakistan, l’Italia intera si mobilitava in supporto alla missione: un ruolo particolare fu svolto dalle aziende del Piemonte, che fornirono alcuni degli strumenti chiave per la scalata. La regione, storicamente legata alla produzione industriale, si distinse grazie alla qualità dei suoi prodotti tecnici, che diventarono essenziali per affrontare le difficoltà del K2.
Le corde in nylon della Gottifredi Maffioli
In particolare, la Gottifredi Maffioli, azienda di Novara, si distinse per il contributo fondamentale dato dalle sue corde in nylon. Il nylon, un materiale che aveva visto la sua nascita come fibra sintetica per usi militari, fu trasformato in un prodotto altamente innovativo per l’alpinismo. Fino ad allora, le corde tradizionali erano realizzate in materiali come la canapa o il sisal, ma questi non erano in grado di resistere alle condizioni estreme del Karakorum. Le corde in nylon fornite dalla Gottifredi Maffioli erano più leggere, resistenti al gelo e alla trazione, e rappresentarono una vera e propria rivoluzione nella sicurezza degli alpinisti. La capacità di resistere al freddo intenso e alla continua esposizione agli agenti atmosferici faceva delle corde italiane un bene inestimabile per la spedizione.
Le termomute Tettamanti
Anche l’azienda Tettamanti di Trecate, sempre nel Piemonte, svolse un ruolo cruciale con le termotute. Queste tute termiche, progettate per proteggere gli alpinisti dalle temperature estremamente basse, furono una delle innovazioni che resero possibile la sopravvivenza in cima al K2. La collaborazione tra le aziende piemontesi e la spedizione italiana divenne, quindi, un esempio di come la sinergia tra ingegno industriale e alpinismo potesse dare risultati straordinari.
Oltre alle aziende, anche l’intera comunità piemontese si sentì partecipe di quell’impresa leggendaria. Non solo attraverso il contributo di tecnologie avanzate, ma anche con il supporto morale. Le storie dei protagonisti della spedizione venivano raccontate in tutte le piazze, e l’impresa del K2 divenne una parte importante dell’identità collettiva regionale.
La seconda spedizione giapponese sul K2
Nel 1974, vent’anni dopo la storica conquista del K2 da parte degli italiani, un gruppo di alpinisti giapponesi intraprese una nuova spedizione verso la seconda vetta più alta del mondo. La spedizione giapponese del 1974, diretta dal noto alpinista e guida Hideo Sato, non era solo un nuovo tentativo di raggiungere la cima, ma anche un’importante missione di ricerca e rispetto per il passato.
La spedizione giapponese si inseriva in un periodo in cui il K2, dopo la storica vittoria italiana del 1954, era diventato un simbolo di sfida per gli alpinisti di tutto il mondo. Nonostante le difficoltà incontrate in quella che è considerata una delle montagne più difficili e pericolose da scalare, il gruppo giapponese dimostrò grande determinazione. L’anno precedente, nel 1973, un altro tentativo giapponese era stato segnato da gravi perdite, con la morte di alcuni membri durante la salita, e questo rendeva il 1974 ancora più significativo, sia come sfida che come tributo.
Il ritorno delle corde italiane
Un episodio emblematico accadde proprio durante la salita. Mentre i giapponesi si trovavano nei pressi della cima, si imbatterono in alcune delle attrezzature lasciate dalla spedizione italiana del 1954, in particolare delle corde. Quelle corde erano realizzate in nylon, un materiale innovativo introdotto dagli italiani grazie alla collaborazione con l’azienda Gottifredi Maffioli, e si trovavano in perfette condizioni nonostante le condizioni estreme del Karakorum.
Riconoscendo l’importanza di quel ritrovamento, i membri della spedizione giapponese decisero di restituire simbolicamente le corde agli italiani. Questo episodio non è solo una curiosità storica, ma sottolinea l’importanza che la spedizione italiana del 1954 ha avuto nel panorama mondiale dell’alpinismo. Le attrezzature italiane, in particolare le corde in nylon, erano considerate tra le più innovative e fondamentali per la sopravvivenza in un ambiente estremo come quello del Karakorum.
“Ho il piacere di comunicurVi che Shraf Amen, un portatore hunza d’alta quota, che mi accompagnò nel viaggio al Karakorum del 1973 e che con i giapponesi ha raggiunto quest’agosto la cima del K2, mi ha fatto recapitare in questi giorni un pezzo delle corde fisse di nylon lasciate sulla parete del K2 durante la mia spedizione al Karakorum del 1954.
La corda è ancora in perfetto stato, come potrete Voi stessi constatare, dopo 23 anni ch’è rimasta esposta alle intemperie su quelle tremenda parete.
E’ con vivo compiacimento che trasmetto la notizia a Voi che avete curato con tanto zelo la confezione delle corde alle quali fu affidata le vita dei nostri arrampicatori durante gli spostamenti da un campo all’altro e che hanno così efficacemente contribuito alle vittoria nella scalata alla seconda cima del mondo, il K2. Vogliate gradire i miei saluti più cordiali”
Ardito Desio
Anche se la spedizione giapponese del 1974 non riuscì a raggiungere la cima del K2, come altri tentativi prima di loro, l’evento del ritrovamento e della restituzione delle corde rappresentò comunque una vittoria simbolica per tutti. Le corde italiane, intatte e in perfette condizioni dopo vent’anni, erano diventate un simbolo di continuità e resilienza, non solo per l’alpinismo, ma per l’intera comunità di appassionati di montagna.
La spedizione italiana del 2004: 50 anni dopo
Nel 2004, il K2 fu teatro di una spedizione italiana che si propose di celebrare il 50° anniversario della storica ascensione di Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, i primi italiani a raggiungere la vetta del K2 nel 1954. L’obiettivo della spedizione, però, era ben diverso: compiere l’impresa senza l’ausilio di ossigeno supplementare, una sfida che avrebbe richiesto una preparazione straordinaria e una resistenza fisica e mentale senza pari.
Il gruppo di alpinisti italiani, che comprendeva figure di spicco come Silvio Mondinelli, noto come “Gnaro”, si trovò ad affrontare condizioni estremamente difficili durante l’ascensione. Tempeste di neve, venti intensi e temperature gelide furono solo alcuni degli ostacoli che il team dovette superare, rendendo l’impresa ancor più ardua e pericolosa.
Le difficoltà non si limitarono solo alle condizioni meteorologiche. L’altitudine elevata comportò un progressivo indebolimento fisico e psicologico per gli alpinisti, con alcuni membri costretti a rinunciare alla scalata a causa della fatica e del crescente pericolo. Tuttavia, nonostante le gravi difficoltà, Silvio Mondinelli continuò determinato verso la vetta. La sua perseveranza, unita a una preparazione tecnica ed esperienziale unica, gli permise di portare a termine la scalata.
Il 31 luglio 2004, Mondinelli raggiunse finalmente la vetta del K2, diventando il primo italiano a compiere l’impresa senza ossigeno. La sua ascensione è considerata una delle più difficili e rischiose della storia dell’alpinismo, in quanto il K2 è una delle montagne con il tasso di mortalità più elevato tra tutte le vette superiori agli 8.000 metri.
Questo successo non solo arricchì la carriera di Mondinelli, ma rafforzò anche il prestigio dell’alpinismo italiano a livello internazionale. La sua impresa, iniziata per rendere omaggio alla storica conquista del K2, finì per tracciare una via significativa nel panorama alpinistico globale.
Gnaro Silvio Mondinelli
Silvio Mondinelli, detto Gnaro, è un alpinista italiano noto non solo per le sue numerose conquiste sulle montagne più alte del mondo, ma per il suo legame particolare con il K2. Mondinelli è uno dei pochi alpinisti ad aver scalato il K2 senza l’ausilio di ossigeno, un’impresa che ha segnato la sua carriera come uno degli eroi della montagna.
Nel 2004, Mondinelli riuscì a conquistare il K2, aggiungendo questa vittoria alla sua lunga lista di successi nelle montagne himalayane (dal 1993 al 2007 Gnaro Silvio Mondinelli ha salito tutte le vette più alte della terra, sesto uomo al mondo ad averle concluse senza ossigeno ausiliario e nel 2001 Gnaro scala quattro 8mila nell’arco di soli 5 mesi: Everest, Gasherbrum I, Gasherbrum II e Dhaulagiri, raggiungendo nel 2007 l’ultima vetta del globo, dopo 14 anni dalla prima).
Tuttavia, la sua scalata al K2 non è stata solo un’impresa fisica. Si è trattato anche di un incontro con la storia della montagna, un tentativo di completare quella che era stata una conquista difficile e dolorosa per molti altri. Mondinelli affrontò la vetta con un approccio che rispettava la tradizione dell’alpinismo più puro: senza ossigeno supplementare, affrontando ogni difficoltà con la sola forza del suo fisico e della sua mente.
Il suo arrivo in cima al K2 ha un valore simbolico enorme, poiché Mondinelli non è stato solo l’ennesimo alpinista a salire una delle montagne più pericolose al mondo. È stato il primo italiano a farlo senza ossigeno, rendendo la sua impresa ancora più leggendaria. La sua scalata è diventata un simbolo del coraggio e della determinazione degli alpinisti italiani, ma anche della continua evoluzione dell’alpinismo.
Leggi l’articolo: Gnaro Silvio Mondinelli, sulle vette più alte del mondo
La prima donna sul K2
“Il momento più bello è quando realizzi di averla fatta. Non sei solo in cima ma sei tornata a raccontarlo.”
Silvia Loreggian
La prima donna a salire sul K2 fu la polacca Wanda Rutkiewicz, che raggiunse la vetta nel 1986. La sua impresa segnò una pietra miliare nella storia delle donne alpiniste, che negli anni successivi avrebbero conquistato sempre più spazio in un mondo dominato da uomini. Rutkiewicz, che aveva già raggiunto diverse vette himalayane, è stata una delle figure di spicco nel movimento che ha visto le donne spingersi oltre i limiti dell’alpinismo. La sua scalata al K2 è un simbolo di resistenza, determinazione e capacità di sfidare il destino.
Le imprese del 2007, 2008 e 2009
Tra il 2007 e il 2009, il K2 divenne scenario di una serie di ascensioni e tragedie che avrebbero segnato per sempre la storia dell’alpinismo. Non solo per il loro impatto drammatico, anche per le circostanze che le resero esempi di quanto questa montagna richieda sacrifici estremi. Se da un lato il K2 continua a esercitare una magnetica attrazione, dall’altro ha dimostrato di essere una montagna che non perdona, e che paga ogni imprudenza con il tributo di vite umane.
La spedizione del 2007
Il 2007 è un anno che si ricorda non per la conquista della cima, ma per il numero di tentativi falliti e le difficoltà incontrate dalle diverse spedizioni che cercavano di scalare il K2. Tra le spedizioni più importanti di quell’anno c’era quella guidata dal famoso alpinista italiano, Simone Moro, che tentava la salita in inverno, insieme ai suoi compagni di avventura. Nonostante il gran lavoro di preparazione, il gruppo si dovette ritirare a pochi passi dalla vetta. Le difficoltà logistiche, le condizioni climatiche avverse e la scarsità di ossigeno furono tra i fattori principali che impedirono loro di raggiungere la cima. Sebbene Moro abbia sempre raccontato di come, durante la sua carriera, l’inverno sul K2 fosse stato uno dei suoi obiettivi più sfidanti, la spedizione del 2007 fu vista più come una sorta di test che come una possibilità di conquista. Questo tentativo non fu il primo né l’ultimo per Simone Moro, ma rimase un esempio delle difficoltà che una spedizione può affrontare.
La tragedia del 2008
Il 2008, tuttavia, rappresentò uno degli anni più tragici della storia del K2. La montagna, che ha il triste primato di essere la seconda più alta del mondo e la più pericolosa da scalare, mostrò tutta la sua furia. La spedizione nepalese, che ha visto coinvolti alcuni tra i più esperti alpinisti dell’Himalaya, affrontò condizioni atmosferiche estreme che resero l’impresa ancora più difficile. Il loro obiettivo era di raggiungere la vetta senza l’utilizzo di ossigeno supplementare, una scelta che si sarebbe rivelata fatale.
1-2 agosto: l’incidente
La tragedia si consumò a partire dalla notte del 1° agosto 2008. La montagna era già nota per le sue improvvise tempeste di neve e il vento gelido che rendevano quasi impossibile la scalata in quelle condizioni. Un gruppo di alpinisti, tra cui il celebre alpinista pakistano Ali Sadpara e altri membri della spedizione nepalese, stava tentando la vetta. Poco prima di raggiungere la cima, le tempeste di neve improvvise e il ghiaccio che si staccava dalle pareti rocciose portarono il gruppo a perdere l’orientamento. L’assenza di visibilità a causa della neve e la scarsità di ossigeno furono determinanti nel portare alla morte di diversi membri della spedizione. Il gruppo, travolto dalla bufera, fu incapace di ripararsi adeguatamente e rimase esposto per ore, con temperature che scendevano ben al di sotto dei -40°C.
Quando la tempesta si placò, solo pochi alpinisti rimasero in grado di proseguire. Il bilancio finale di quella tragedia fu tragico.
Sei alpinisti persero la vita, tra cui il noto alpinista italiano, Marco Confortola, che, pur sopravvissuto, rimase gravemente ferito. I soccorsi arrivarono troppo tardi, e l’impresa che sembrava essere una delle più preparate nella storia dell’alpinismo sul K2 si trasformò in un disastro mortale. Le salme dei caduti furono ritrovate a diverse altitudini, e la tragedia divenne una delle più discusse e dibattute nella storia recente del K2.
La spedizione del 2009
Nel 2009, il K2 continuò a rappresentare un obiettivo insidioso per gli alpinisti di tutto il mondo. Una spedizione guidata da alcuni degli alpinisti più esperti, tra cui il nepalese Pemba Dorje e l’alpinista americano, Gerry Roach, tentò nuovamente la salita, ma questa volta con il supporto di ossigeno supplementare. Nonostante la loro esperienza, le condizioni difficili continuarono a essere un ostacolo insormontabile. La spedizione si trovò di fronte a condizioni climatiche avverse. Al ritiro di alcuni membri a causa dell’esaurimento fisico, riuscendo comunque a portare avanti un’impresa che, seppur priva di successi nella conquista della cima, ha segnato l’importanza di prepararsi ad affrontare la montagna più letale del mondo con tutte le precauzioni necessarie.
70 anni dal primo K2: un’impresa che continua a ispirare
Nel 1954, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli raggiunsero la vetta del K2, coronando una delle più grandi imprese alpinistiche della storia. Quella salita, che ha segnato il 31 luglio come un punto di riferimento per l’alpinismo mondiale, non solo ha reso il K2 il “mostro sacro” delle montagne. Ha forgiato il legame tra l’Italia e la montagna che oggi, a 70 anni di distanza, rimane più forte che mai.
Nel 2024, il Club Alpino Italiano (CAI) ha voluto celebrare questo storico traguardo con un’impresa unica: la spedizione K2-70. Un gruppo di alpiniste italo-pakistane ha affrontato la montagna, non per conquistare la vetta, ma per dimostrare che il vero valore dell’alpinismo risiede nel viaggio e nelle persone che lo compiono. Sebbene la cima sia rimasta lontana, questa spedizione ha incarnato lo spirito di solidarietà e amicizia che ha sempre contraddistinto l’alpinismo del CAI, testimoniando come, anche dopo sette decenni, il K2 continui a rappresentare una sfida che unisce culture, esperienze e sogni. Un tributo alla montagna e a tutti coloro che, dal 1954 ad oggi, hanno dedicato la loro vita alla sua conquista.
“Non abbiamo raggiunto la cima del K2 ma la montagna ci ha insegnato il valore più grande: quello dell’amicizia”.
Anna Torretta
Il K2 non è solo una montagna…
Il K2 non è solo una montagna: è un sogno intangibile che si erge imponente contro il cielo, una sfida eterna tra l’uomo e l’infinito. La sua fama di “Montagna dei morti” non nasce dalla malvagità del destino, ma dall’indomabile forza della natura che custodisce gelosamente la sua vetta. Ogni roccia, ogni crepaccio, ogni tempesta che ne sfida l’ascesa racconta storie di coraggio e di disperazione, di sogni che si sono misurati contro la sua parete gelida.
Gli alpinisti che sfidano la sua implacabile solitudine lo fanno non solo per conquistare una cima, ma per entrare nell’eternità di un’impresa che è più grande di loro stessi. In ogni passo incerto, nella lotta contro il vento gelido e l’altitudine che ne soffoca il respiro, si riflette l’anima dell’alpinismo stesso: la costante tensione tra il sogno e la realtà, tra la bellezza pura e il pericolo imminente.
Il K2, con la sua spietata eleganza, racconta la storia di chi ha osato, ma anche di chi non è più tornato. È una montagna che non si conquista, ma che ti possiede, lasciando un segno indelebile, un mistero che solo il cuore degli alpinisti può comprendere.
“Chi più in alto sale, più lontano vede. Chi più lontano vede, più a lungo sogna.”
Walter Bonatti