Walter Bonatti: biografia, controversie e scalate
Walter Bonatti
Ci sono persone che non si limitano a scrivere la storia, ma la incidono nella roccia, rendendola eterna. Questa è la storia di Walter Bonatti, una delle figure sportive più significative del nostro tempo.
In questo articolo abbiamo raccolto la sua biografia, dall’infanzia al primo incontro con l’alpinismo, dalle prime imprese alla sua conquista più grande: la prima scalata al mondo del K2, nel 1954.
Quella che leggi qui non è solo la storia di uno degli alpinisti più straordinari di sempre, capace di imprese che sembravano impossibili, ma l’esempio di come un’etica inflessibile e un’ambizione infinita, possano portare a scalare le montagne dell’anima.
Ma chi è Walter Bonatti?

Walter Bonatti: la vita
Chi era davvero Walter Bonatti? Un eroe, un visionario, un uomo che ha vissuto con passione assoluta la montagna, pagando spesso un prezzo alto per il suo spirito indomito.
Walter Bonatti nasce a Bergamo il 22 giugno 1930 in una famiglia modesta ma solida. Suo padre, Angelo Bonatti, era operaio, mentre sua madre, Agostina Appiani, si dedicava alla casa. Aveva una sorella, che purtroppo morì in giovane età. L’infanzia di Walter è segnata dalla semplicità e dalla disciplina. Cresce in Lombardia, un ragazzo vivace e curioso, con una passione innata per il movimento e lo sport.
Da bambino trascorre ore a esplorare i dintorni, affascinato dalla natura e dalla sua imprevedibilità. La sua prima grande passione sportiva è la ginnastica, che pratica con impegno nella società monzese Forti e Liberi. Ma il destino ha in serbo per lui qualcosa di più grande.
È il 1948 quando Bonatti scopre l’alpinismo, un’attrazione viscerale che lo segnerà per tutta la vita. Le sue prime scalate avvengono sulle Prealpi lombarde, dove testa le sue doti fisiche e mentali.
Non è solo una questione di sfida o avventura: per lui la montagna diventa una scuola di vita, un ambiente che impone regole severe ma giuste, dove ogni errore si paga caro e ogni successo ha il sapore della conquista autentica.
Nel frattempo, la realtà quotidiana è ben diversa da quella delle vette. Per mantenersi, lavora come operaio siderurgico alla Falck di Sesto San Giovanni. Sono anni duri: turni massacranti, fatiche quotidiane, e poi, la domenica, l’unico vero respiro, quello della montagna. Dopo aver terminato il turno di notte del sabato, parte subito per le sue scalate, spesso senza dormire. Non cerca comodità, non le ha mai volute.
Nel 1949 Bonatti compie un salto di livello. Scala la parete ovest della Aiguille Noire de Peuterey, ripetendo la via Ratti-Vitali. Poi affronta la via Cassin sulla parete nord delle Grandes Jorasses, un’impresa riservata a pochi eletti. Il Pizzo Badile e il Monte Bianco diventano il suo campo di battaglia, dove mette alla prova resistenza e determinazione. Ogni salita è un dialogo con la montagna, ogni bivacco una lezione di sopravvivenza.

E’ per conoscermi meglio e per trovare una mia dimensione che ho scalato montagne impossibili. L’ho fatto spinto dalla bellezza della natura alpina, dalla sfida e dal piacere di sapere.
Walter Bonatti
Il 1950 segna l’inizio di una delle sue sfide più dure: il Grand Capucin, una torre di granito rosso che ancora nessuno ha scalato. Il primo tentativo, con Camillo Barzaghi, si conclude in una tormenta. Il secondo, con Luciano Ghigo, si infrange contro una parete verticale di 40 metri. Ma Bonatti non è tipo da arrendersi. Torna nel 1951 e, con la stessa determinazione, porta a termine l’impresa. La sua scalata viene celebrata come una delle più grandi realizzazioni dell’alpinismo dell’epoca. Ma la gloria si mescola al dolore: sua madre muore per l’emozione, lasciandolo con un senso di vuoto che non lo abbandonerà mai del tutto.
Nel frattempo, viene chiamato a svolgere il servizio militare e, dopo qualche protesta, viene assegnato al 6º Reggimento Alpini. Qui perfeziona la sua tecnica e la sua preparazione fisica, affilando quelle doti che lo renderanno uno dei più grandi alpinisti di sempre.
L’inizio degli anni ’50 è un vortice di imprese. Nel 1953 scala la parete nord della Cima Ovest di Lavaredo in pieno inverno, affrontando temperature glaciali. Qualche giorno dopo ripete l’impresa sulla Cima Grande. Poi il Cervino, il Monte Bianco, il Pizzo Palù. Ogni cima diventa un tassello del suo percorso, ogni nuova sfida un modo per superare se stesso.

La conquista del K2: contesto, ruolo e controversie
1954: il contesto
Nel 1954 l’Italia, ancora segnata dalle difficoltà economiche e sociali del dopoguerra, cercava un’impresa che potesse rappresentare un simbolo di rinascita e orgoglio nazionale. La spedizione al K2, seconda montagna più alta del mondo con i suoi 8.611 metri, divenne l’occasione per dimostrare le capacità e la determinazione del paese nel campo dell’alpinismo.
L’iniziativa fu promossa dal Club Alpino Italiano (CAI) e guidata dal geologo e accademico Ardito Desio, che aveva già condotto studi sull’area e pianificato meticolosamente la missione.

L’obiettivo era chiaro: portare per la prima volta una squadra italiana sulla vetta del K2, impresa mai riuscita prima ad alcuna spedizione.
L’ascesa era considerata estremamente impegnativa a causa della difficoltà tecnica della montagna e delle condizioni meteorologiche imprevedibili ma due fattori lasciavano presagire una svolta.
Il primo erano i materiali rivoluzionari provenienti dall’Ossola, che avrebbero vestito, scaldato e assicurato gli scalatori: corde in nylon e termomute.
Leggi anche “I materiali e gli strumenti della spedizione sul K2 del 1954”
La seconda era la preparazione meticolosa e il supporto di numerosi alpinisti e portatori, al fianco del team italiano.





Il ruolo di Bonatti nella spedizione
Tra i membri della spedizione spiccava proprio Walter, al tempo un giovane e promettente alpinista di 24 anni, già distintosi per la sua straordinaria resistenza fisica e le sue imprese precedenti sulle Alpi. Nonostante la giovane età, Bonatti fu scelto per il suo talento e il suo spirito indomito, diventando uno degli uomini chiave della spedizione.
Il suo ruolo principale era quello di supportare la squadra di punta, trasportando equipaggiamento essenziale e preparando il terreno per la salita finale.
La conquista del K2
Walter Bonatti si trovava, come sempre, tra i grandi che avrebbero segnato quella storica impresa, ma non in prima linea, almeno non all’inizio.
Era il più giovane della spedizione italiana al K2 del 1954, ma la sua ambizione e il suo spirito di sacrificio lo avrebbero portato ben oltre la sua funzione iniziale. Bonatti non era mai un uomo che si limitava a fare il suo compito. La montagna, come tutte le montagne, gli parlava in un modo che pochi altri riuscivano a comprendere.
Ogni giorno, Bonatti si spingeva più in alto, affrontando il gelo e le difficoltà crescenti, sempre più consapevole di ciò che quella montagna significava per lui.
Mentre gli altri si fermavano, lui continuava a salire, raggiungendo luoghi che pochi alpinisti avevano visto, sempre in cerca di nuovi limiti da superare. Sebbene fosse stato scelto per un ruolo di supporto, il suo spirito era tutt’altro che passivo. La montagna non era per lui solo un luogo da attraversare, ma un campo di battaglia personale, dove ogni passo rappresentava una sfida contro se stesso e le forze della natura.

L’incidente: Bonatti e Mahdi
Fu a questo punto che arrivò il momento che avrebbe di lì a poco segnato la sua vita e la storia della spedizione.
Compagnoni e Lacedelli, a un passo dalla vetta, erano ormai stremati, piegati dalle condizioni estreme della montagna. Bonatti, che aveva svolto fin lì il suo ruolo di supporto al settimo e ottavo campo, fu incaricato di scendere per recuperare le bombole d’ossigeno lasciate da altri compagni.

Scese, e poi risalì con il peso delle bombole sulle spalle, accompagnato dal portatore Mahdi. Ma quando giunsero a destinazione, la situazione aveva preso una piega drammatica.
Nonostante il piano concordato, Compagnoni e Lacedelli decisero di fissare il nono campo 250 metri più in alto, senza avvertire Bonatti. Quando lui e Mahdi arrivarono sul luogo previsto, si ritrovarono a dover affrontare oscurità e morte imminente, nel gelo di -50 °C.
Gli altri, lontani, li avvisarono con indicazioni sommarie ma nebbia e neve rendevano impossibile proseguire. La decisione di non fermarsi nel punto concordato significò per Bonatti e Mahdi una notte di inferno a oltre 8.000 metri, nel cuore della “zona della morte”, senza tenda, né sacco a pelo, con il gelo e il buio come unici compagni. Un bivacco senza protezione, con temperature che sfioravano i -50°C era l’ambiente dove Bonatti e Mahdi avrebbero dovuto sfidare la morte per una notte intera.
Solo alle prime luci dell’alba, riuscirono a ritornare al campo 8, dove Mahdi subì gravi congelamenti che gli avrebbero causato l’amputazione di alcune dita.
Questo episodio segnò Bonatti nel profondo. Non solo per la sofferenza fisica e psicologica, ma per il discredito che ne seguì. La sua impresa, purtroppo, non fu riconosciuta come avrebbe dovuto essere. Quando la vetta fu finalmente raggiunta da Compagnoni e Lacedelli, Bonatti venne messo in ombra, e la sua partecipazione fu distorta dalla versione ufficiale.

Le polemiche dopo la spedizione
Dopo la storica conquista del K2, il nome di Walter Bonatti sembrava destinato a diventare un simbolo di coraggio e dedizione. Ma la realtà, come spesso accade nelle grandi imprese, fu ben diversa.
Mentre la spedizione veniva celebrata come un trionfo italiano, per Bonatti la vera battaglia stava appena cominciando. Le polemiche sulla sua esclusione dalla vetta, la difficoltà del bivacco a 8.000 metri e, soprattutto, le accuse riguardanti l’uso improprio delle bombole d’ossigeno segnarono un periodo di grande tensione e amarezza.
La disputa principale riguardò l’utilizzo dell’ossigeno: Bonatti, infatti, stava subendo l’accusa di averlo utilizzato in modo errato, sottraendolo alla squadra di punta e compromettendo così la riuscita dell’ascensione. Le accuse si moltiplicarono, alimentate dai giornali e dai membri della spedizione che volevano giustificare la propria versione dei fatti. Bonatti fu accusato di non aver rispettato le direttive e di aver danneggiato la spedizione con il suo comportamento.
In seguito alle accuse di un giornalista nel 1964 e alla sua causa vinta per diffamazione, Bonatti cominciò una lunga battaglia per chiarire la verità.
L’alpinismo, che nella sua essenza è una disciplina di fiducia reciproca, divenne in quel momento un’arena di accuse e diffidenza.
Solo decenni dopo, nel 1994, la ricerca di nuove prove portò alla scoperta che le bombole d’ossigeno erano state utilizzate fino alla vetta, smentendo le versioni ufficiali. Lacedelli stesso, anni dopo, ammise che la scelta di fissare il nono campo più in alto era stata un errore. Anche il Club Alpino Italiano, nel 2004, rivedette la relazione ufficiale, accogliendo molte delle obiezioni di Bonatti. In un incontro del 2008, la Società Geografica Italiana contribuì a dare finalmente il giusto riconoscimento a Bonatti per il suo ruolo nella spedizione al K2.
La verità che Bonatti aveva tanto cercato di diffondere venne finalmente alla luce, e la sua impresa sul K2, pur con tutte le polemiche e le ingiustizie che l’avevano circondata, divenne un atto leggendario di coraggio e determinazione. Una storia che dimostrò che il vero contributo alla conquista del K2 non era solo quello di arrivare in cima, ma anche quello di affrontare il buio e il gelo di una montagna che, per un attimo, lo aveva voluto inghiottire.
La sua impresa solitaria sulla montagna, la sua capacità di resistere nelle condizioni più difficili, divennero simbolo di una forma di eroismo senza clamore.
Nel corso dei decenni, la storicizzazione della spedizione al K2 ha portato a una revisione critica del suo ruolo, e oggi Walter Bonatti è riconosciuto come uno degli alpinisti più grandi della storia. Non solo per la sua tecnica, ma per il coraggio, la determinazione e la straordinaria forza d’animo che ha saputo mostrare in un contesto dove le forze della natura e le dinamiche umane erano entrambe implacabili.

Dopo il K2: le sue imprese successive
Così come non erano bastati gelo e buio a fermare Bonatti sul k2, non ci riuscirono nemmeno il trauma e il dolore lasciati da quell’episodio.
Dopo il 1954, Walter affrontò le ultime sfide che la montagna avrebbe proposto alla sua carriera da alpinista con passione ed etica, segnando tappe fondamentali nella storia di questo sport.
L’impresa del Petit Dru sul Monte Bianco
Nel 1955, Walter Bonatti intraprese una delle scalate più leggendarie della sua carriera: la solitaria del pilastro sud-ovest del Petit Dru, sul monte Bianco.
La parete, famosa per la sua verticalità assoluta e le condizioni particolarmente difficili, aveva resistito a numerosi tentativi di scalata da parte di altri alpinisti.
Il pilastro sud-ovest del Petit Dru, una parete di roccia che si innalza per quasi 1.000 metri, era considerato uno dei luoghi più ostici da scalare, non solo per la difficoltà tecnica, ma anche per la sua esposizione e la scarsa affidabilità del materiale di ancoraggio disponibile all’epoca. Le condizioni meteorologiche avverse rendevano tutto ancor più complicato: le tempeste erano frequenti, e la neve e il ghiaccio coprivano le fessure, rendendo ancora più insidiosa la progressione.

Dopo cinque giorni di arrampicata continua, con la fatica che cominciava a farsi sentire e le risorse che si riducevano sempre di più, Bonatti si trovò di fronte a un passaggio che sembrava insuperabile. La parete era talmente ripida e liscia che non vi era alcun punto d’appoggio sicuro per il prossimo passo. A quel punto, la soluzione non arrivò dall’uso tradizionale degli strumenti, ma dall’ingegno puro: Bonatti legò insieme il materiale che gli restava, creando una sorta di grappino improvvisato che gli permise di superare l’impasse.

Nonostante i numerosi tentativi falliti, Bonatti non cedette e con grande forza di volontà riuscì finalmente a scalare quel passaggio insormontabile, per poi giungere in cima al Petit Dru. Questa scalata, la prima in solitaria sulla parete sud-ovest, rimase una delle imprese più significative dell’alpinismo moderno, non solo per la difficoltà tecnica, ma per la capacità di Bonatti di superare se stesso, di gestire la sofferenza e di affrontare la montagna con lucidità e determinazione. La sua capacità di vincere anche la sofferenza psicologica e la solitudine in alta quota è ciò che la rese ancora più epica.
Tragedie sfiorate: Monte Bianco e Pilone Centrale
Si sa, la montagna è un luogo inospitale che va prima di tutto rispettato, e Walter lo sapeva bene. Tante furono le situazioni in cui la vita e la morte sfumavano in un confine sottile, ma due tragedie in particolare misero a dura prova la determinazione dello scalatore italiano.

Pochi mesi dopo la sua straordinaria impresa sul Petit Dru, Bonatti e Silvano Gheser tentarono l’ascensione invernale della Via della Poire sul versante della Brenva, una via leggendaria per le sue difficoltà e per le condizioni meteo imprevedibili.
Ma ciò che doveva essere una normale sfida divenne ben presto una lotta disperata per la sopravvivenza.
Durante l’avvicinamento, incrociarono la cordata di Jean Vincendon e François Henry. La tempesta che li sorprese, violenta e rapida, non lasciò scampo a nessuno.
Bonatti e Gheser si rifugiarono in un bivacco a 4.100 metri, dove passarono 18 ore in un angoscioso isolamento. Quando finalmente il tempo migliorò, Bonatti, pur esausto, decise di continuare a salire verso il Colle della Brenva, nonostante le condizioni proibitive. La discesa, in effetti, sarebbe stata ancor più pericolosa.
Poco sopra, Vincendon e Henry, ormai esausti e a soli 200 metri dalla vetta, si trovarono costretti a rinunciare. Nonostante il desiderio di aiutarli, Bonatti e Gheser non poterono fare nulla per salvarli, sebbene si fossero avvicinati. Il giorno dopo, i corpi dei due alpinisti furono trovati.
Non fu l’unica tragedia sfiorata da Bonatti. Nel 1961, si trovò coinvolto in un’altra impresa drammatica: l’ascensione al Pilone Centrale del Frêney, un’impresa che si rivelò fatale per molti. La cordata, composta da Bonatti, Andrea Oggioni e Gallieni, fu bloccata a soli 100 metri dalla vetta da una violenta tormenta di neve. La discesa si trasformò in un calvario: la fatica e l’esaurimento mollarono diversi membri della spedizione. Soltanto Bonatti, Gallieni e Mazeaud riuscirono a tornare vivi.

Da alpinista a esploratore: l’ultima vita di Walter Bonatti
Le esplorazioni, i libri e la televisione
Dopo l’ultima epica scalata del Cervino, che gli valse la Medaglia d’Oro della Presidenza della Repubblica nel 1965, Walter Bonatti si ritira dall’alpinismo estremo.
Da quel giorno cambiarono i suoi orizzonti, ma non il suo sguardo.
Le pareti che prima erano verticali diventarono distese orizzontali.
Iniziò un nuovo capitolo di vita dedicato alle esplorazioni del mondo, e alla costante e continua ricerca di se stesso.
Questo periodo segnò anche l’inizio di una nuova fase nella sua carriera di scrittore. Il suo libro “Le mie montagne” (1961), che racconta la sua straordinaria esperienza nel mondo dell’alpinismo, divenne un punto di riferimento per comprendere non solo le sue imprese, ma anche la sua visione profonda della montagna.
Il confronto diretto con la natura rimase il punto centrale della sua esistenza. Senza più l’ossessione per la montagna, Bonatti cercò un modo di vivere che fosse più in sintonia con la realtà del mondo, e trovò nei libri e nella televisione uno strumento per riuscire ad arrivare al cuore degli italiani.
Iniziò a collaborare con il settimanale Epoca, documentando le sue esplorazioni in terre remote e sconosciute. Nel 1965, navigò in canoa per 2.500 km tra i fiumi Yukon e Porcupine, attraversando i paesaggi selvaggi del Klondike e dello Yukon. Tornato a casa, fece uscire il libro “Le mie avventure in Africa” (1967).
Nel corso degli anni, Bonatti continuò a esplorare, attraversando l’Africa, scalando il Kilimangiaro, e percorrendo solitarie distese in Sud America e in Asia. Esplorò il Ruwenzori in Uganda, si avventurò tra le popolazioni indigene dei Waikas Yanomami e nel 1969 ripercorse le orme di Herman Melville nelle isole Marchesi, dove scoprì la verità dietro il mito del naufragio della baleniera. La sua indole curiosa lo portò lontano anche nell’Amazzonia, nella giungla di Sumatra, in Antartide, e addirittura nell’isolato Capo Horn, sempre in solitaria, alla ricerca di una connessione primitiva con la natura. In quegli anni, scrisse “Ho vissuto tra gli animali selvaggi” (1980). È di questo periodo anche la sua opera “Avventura”, scritta nel 1984.
Con il passare degli anni, Bonatti diventò una figura di riferimento per il grande pubblico, partecipando a interviste e conferenze, e ritrovando un contatto diretto con chi lo aveva amato prima delle vicende della spedizione del ‘54.
Il libro “Processo al K2” (1985) diventa una riflessione profonda sulla verità, sull’onore e sulle difficoltà dell’alpinismo.
Partecipò infine a salotti televisivi importanti, tra cui la famosa intervista di Enzo Biagi del 1983 e concessa a “Che Tempo Che Fa” del 2009.
La storia di Walter Bonatti, uomo di parola, di esperienza e di riflessione, è l’esempio di una consapevolezza che ha toccato le vette più alte del mondo, e gli angoli più profondi dell’animo umano.
Altre sue opere di grande successo furono “K2: storia di un caso” (1995), una rivisitazione della sua celebre scalata del K2, “Montagne di una vita” (1995), che raccoglie le sue esperienze alpinistiche più significative, e “In terre lontane” (1997), in cui racconta le sue avventure nelle terre più remote e inesplorate del pianeta.
Una vita dedicata alla ridefinizione dei confini umani e sociali, oltre che terrestri, non poteva che meritare tanti riconoscimenti e numerosi premi.
Walter Bonatti morì nel 2011 per un cancro al pancreas, non prima di essere insignito di una Medaglia d’oro al valore civile, del titolo di Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana e di quello di Ufficiale, Ordine della Legion d’Onore.
“La sua ferrea tempra fisica, dominata da un forte e nobile carattere, gli consentiva di superare difficoltà e ostacoli finora valutati insormontabili, quasi a simbolo della superiorità dello spirito dell’uomo sulle forze materiali. L’epica impresa suscitava la commossa ammirazione del mondo intero e l’orgoglio della Patria.” Roma, 25 febbraio 1965

La memoria: frasi e insegnamenti di Walter Bonatti
A ricordarci di lui, oggi, non c’è solo il rifugio a lui intitolato, posto a 2.025 m s.l.m. nel vallone di Malatra in Val Ferret, ma tutti gli orizzonti che raggiunse per poi raccontare a noi.
Scritte o pronunciate, quel patrimonio di testimonianze e parole sono oggi la via per chiunque cerchi di cogliere il senso dell’avventura e della scoperta, per guardare oltre i propri limiti e ad affrontare la vita con passione e consapevolezza.
Frasi e citazioni famose di Walter Bonatti
“La realtà è il cinque per cento della vita. L’uomo deve sognare per salvarsi.”
Walter Bonatti
“Io chiedo a una scalata non solamente le difficoltà ma una bellezza di linee.”
Walter Bonatti
“È quando sogni che concepisci cose straordinarie, è quando credi che crei veramente, ed è soltanto allora che la tua anima supera le barriere del possibile.”
Walter Bonatti
“Il sacrificio è il filtro fondamentale della vita.”
Walter Bonatti
“Morire di fame è assai meno doloroso che morire di non libertà.”
Walter Bonatti
“Non esistono proprie montagne, si sa, esistono però proprie esperienze. Sulle montagne possono salirci molti altri, ma nessuno potrà mai invadere le esperienze che sono e rimangono nostre.”
Walter Bonatti
“Fintantoché nell’alpinismo si manifesteranno fantasia, idealità e bisogno di conoscenza, quest’ultima rivolta soprattutto al proprio intimo, esso rimarrà vivo.”
Walter Bonatti
“C’è una particolare scelta di stile di vita che io considero pienamente eroica, ed è questa: vivere il proprio ruolo sociale con coerenza, responsabilità e dignità.”
Walter Bonatti
“Negli assoluti silenzi, negli immensi spazi, ho trovato una mia ragione d’essere, un modo di vivere a misura d’uomo.”
Walter Bonatti
“È dunque sognando a occhi aperti, io credo, che vivi intensamente; ed è ancora con l’immaginazione che puoi trovarti a competere persino con l’inattuabile. E qualche volta ne esci anche vincitore.”
Walter Bonatti
“La montagna mi ha insegnato a non barare, a essere onesto con me stesso e con quello che facevo.”
Walter Bonatti
“Rimanere uomo coerente con i propri princìpi e mantenersi individui liberi dal compromesso è «eroismo».”
Walter Bonatti
“La prima forma di inquinamento, da cui derivano poi tutte le conseguenze, sia quella che ci portiamo dentro nell’anima.”
Walter Bonatti
“Oggi più che mai l’essere umano ha paura di affrontarsi nella solitudine, teme quasi di doversi riconoscere e di doversi riconquistare.”
Walter Bonatti
“C’è chi, per ignavia, non sa vedere nell’alpinismo che un mezzo per fuggire la realtà dei giorni nostri. Ma non è giusto. Non escludo che in chi lo pratica possa manifestarsi temporaneamente una qualche componente di fuga, questa però non dovrà prevaricare mai la ragione di base, che non è quella di fuggire ma di raggiungere.”
Walter Bonatti
“Non esiste, come qualcuno teorizza, la scalata moderna, antica o futura. Esiste soltanto la scalata, e come tale non è che un mezzo convenientemente adattato alla propria etica per raggiungere le proprie aspirazioni.”
Walter Bonatti
“Coraggio, soprattutto a livello individuale, è anche volontà civile e responsabile di non rassegnarsi all’incalzante degrado morale. E infine quella buona cosa che consiste nel saper pagare sulla propria pelle i propri errori: virtù assai rara oggigiorno ma per questo ancor più apprezzabile.”
Walter Bonatti
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Walter BONATTI, un uomo come nessuno
Una storia che fa bene, dove uomo e montagna ci insegnano l’importanza di non smettere mai di credere nei sogni, anche quelli irraggiungibili.