Bognanco Fonti
Lettera aperta a Don Remigio. Poichè non ti conosco come un Don Abbondio, mi permetto di farti una confidenza, senza timore che tu abbia a trovarti sulle spine per averti tirato in ballo.
Prima di lasciare Bognanco, stavo nascosto nel tuo studio, l’uscio semi aperto, e spiavo nel corridoio se mai ti vedessi giungere. Ad un tratto vedo un fagotto nero che velocemente si avvicina a un quadro, il Sacro Cuore, lo tocca sul vetro e, precipitosamente, nel segno di Santa Croce, si dilegua. Non sapevo se ridere poteva essere mancanza di riverenza e timoroso implorando da quel dolce Viso un’ispirazione, se potessi sorridere o meno. La scena si ripete. Allora, studiato il tempo, ti precedo e sorprendo quel «fagotto», mentre per la terza volta tenta di toccare devotamente l’Effigie e mi trovo innanzi l’ineffabile sagrestana,
«Viva la Teresa! avrebbe gridato qualche allegro e vecchio villeggiante. Io no, io sono cattivo, e le dico soltanto: «Ecco! tu, zia, cerchi di farti perdonare i peccati, ma ce n’è uno che Dio non perdonerà mai nè a te, nè al Rev, Parroco: quello di accumulare denaro e lasciare la Sua casa squallida, imperituro monumento di pietre sovrapposte e niente altro.
Mi dissero le solite cose, quelle che da più di dieci anni vado ascoltando: che vuol fare una Chiesa magnifica, che si aspetta il ribasso dei prezzi, ecc.
<< Tarnaga! le dissi io in buon bognachese.
Non sai che per mungere le tasche dei signori villeggianti, bisogna far vedere che si fa qualche cosa?
Non sai che è norma evangelica dar lavoro alla povera gente? E si che dovresti sapere che fine ha fatto il servo infedele che ha seppellito il talento ricevuto dal padrone! Ci fosse ancora S. Giovanni Bosco, vi avrebbe già rotto la testa >>.
Questo ed altro le dissi e avrei dovuto aver il coraggio di ripetere tutto al Rev. Parroco. Tu sai quanto io sia timido; non ne ho proprio il coraggio. Lo dico a te. Ti spiace fare il mio avvocato, l’avvocato di tutti coloro che vengono a Bognanco e desolatamente ammirano da troppi anni le squallide pareti. Per il buon Dio puoi fare questo ed altro, come darmi l’assoluzione per aver osato tanto. Ti manderò una marcia per la tua Banda. Grazie. Giulio.
IL POPOLO DELL’OSSOLA N.34 02/09/1949
Il contenuto della lettera a Don Remigio
Nel numero 34 de Il Popolo dell’Ossola, datato 2 settembre 1949, appare una lettera aperta indirizzata a Don Remigio, il parroco di Bognanco Fonti. Una voce ironica, affettuosa ma pungente, che si rivolge al sacerdote non per chiedere una grazia o raccontare un miracolo, ma per lanciare un’accusa mascherata da confessione: perché la casa del Signore è rimasta così spoglia, mentre si raccolgono offerte da decenni?
L’autore della lettera si firma Giulio, e fin dalle prime righe ci trasporta in un’atmosfera da commedia teatrale. Dice di essersi nascosto nello studio del parroco, osservando con curiosità i movimenti della sagrestana, che ogni giorno passava a toccare il quadro del Sacro Cuore con gesto devoto. Una scena tenera e un po’ comica, che diventa il pretesto per una riflessione più amara: la fede non basta se poi si dimentica il vero spirito del Vangelo, quello che invita ad agire, a costruire, a dare dignità anche attraverso la bellezza.
Chi era Don Remigio Biancossi?
Don Remigio Biancossi è ancora oggi una delle figure più ricordate in Val d’Ossola.
Fu parroco di Bognanco Fonti dal primo dopoguerra fino agli anni ’60, figura carismatica e amatissima ma anche discussa. Uomo di profonda fede e dal carattere deciso, si distinse per il suo impegno sociale e per il sogno, mai del tutto realizzato, di costruire una nuova chiesa monumentale.
Remigio fu anche promotore culturale: sostenne la banda musicale e iniziative locali. Morì lasciando un ricordo indelebile nella memoria della valle.
Nella lettera leggiamo che “non era un Don Abbondio”, ma cosa vuol dire?
Questa frase è la conferma che Don Remigio non era un prete timoroso e pavido, ma una figura centrale per la comunità di Bognanco negli anni difficili del dopoguerra.
Questa lettera, pur ironica e teatrale, è una testimonianza importante di una tensione reale tra la fede popolare e le istituzioni religiose. Parla di un’epoca, il secondo dopoguerra, in cui le chiese di montagna erano ancora punti centrali per la vita delle comunità.
E forse, in queste righe ironiche e piene di fede concreta, possiamo ancora oggi riconoscerci. Quanti “Giulio” ci sono ancora nelle nostre valli, che le amano così profondamente?
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